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    RELAZIONE DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI AL COMITATO NAZIONALE – 20/11/2020

    per ANPI Serravalle 27 Novembre 2020

    RELAZIONE DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI, GIANFRANCO
    PAGLIARULO AL COMITATO NAZIONALE ANPI – 20/11/2020
    Una premessa
    Oggi abbiamo a tema la situazione politica ed economico sociale di cui abbiamo a
    lungo parlato nella riunione dei vicepresidenti. Scusatemi, ma non sarò breve. È una
    discussione davvero importante che dovrà portarci a delle scelte importanti, come si
    vedrà alla fine della mia relazione. Pur non essendo un dibattito propriamente
    precongressuale, la discussione di oggi ci potrà servire anche per istruire alcune
    tematiche che ci porteranno al congresso.
    Inizio dalla fine: ci troviamo in una situazione mai avvenuta in passato, straordinaria e
    per molti aspetti gravissima. Dobbiamo attrezzarci per affrontarla e perciò dobbiamo
    avviare una vera e propria nuova fase della lotta antifascista e democratica. Possiamo
    e dobbiamo farlo noi, perché ci è riconosciuto da tanta parte del mondo democratico il
    possesso di quelli che Albertina Soliani chiama giustamente i fondamentali, e cioè
    quell’insieme di radici, di principi, di valori, che affondano nella Resistenza, nella
    repubblica e nella Costituzione.
    Nella sua oramai lunga vita, infatti, l’Anpi ha di fatto rappresentato il tentativo, finora
    sostanzialmente riuscito, di rendere permanente e attuale il sistema di valori generali
    che attribuiamo all’insieme degli eventi che abbiamo definito Resistenza, e ai suoi
    protagonisti: in primo luogo i partigiani e le staffette, i militari e poi i civili che a vari
    livelli e con varie modalità operarono la scelta.
    Tale sistema di valori riconducibili ai principi della giustizia sociale, della libertà, della
    democrazia, della solidarietà, della pace, è stato sempre interpretato non in astratto,
    ma in stretta connessione con le sue incarnazioni istituzionali, in particolare con la
    Repubblica e la Costituzione, e con gli eventi politico-sociali che hanno scandito gli
    ultimi 70 anni.
    Di questi valori l’Anpi dà una lettura storicamente universale. Si intende cioè che
    hanno uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno collocati relativamente al
    luogo e al tempo in cui si coniugano. Quella che oggi chiamiamo democrazia, per
    esempio, ha avuto finora una vita storica limitata ed una altrettanto limitata presenza
    geografica. L’universalità di tali valori è cioè tendenziale e la loro piena realizzazione
    tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà
    compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di ideali.
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    La figura del partigiano/partigiana incarna simbolicamente la lotta per questi ideali,
    nella fattispecie storica nelle vicende terribili e sanguinose dei venti mesi della
    Resistenza.
    L’attuale crisi mondiale causata dalla pandemia, la seconda grande crisi del secolo,
    pone all’ordine del giorno di gran parte dell’occidente in modo contestuale tra grandi
    questioni: la questione sanitaria, la questione sociale, la questione democratica.
    Queste tre questioni sono, in particolare per l’Italia oggi, la sfida a cui occorre
    rispondere e su cui ricollocare l’originario sistema dei valori dell’Anpi. Non basta:
    occorre immaginare l’Italia, l’Europa, il mondo dopo la fine della pandemia, e questo
    apre nuovi pesanti interrogativi.
    Il mondo
    L’elezione del presidente Biden può segnare uno spartiacque nelle dinamiche del
    fenomeno che abbiamo definito populista, ma che si è manifestato, nel tempo, più
    articolato, contenendo aspetti più o meno incisivi di nazionalismo, machismo,
    razzismo, neofascismo, neonazismo con una forte connotazione antipolitica; ma non è
    affatto dato che si avvii il declino del fenomeno populista, pur avendo perso il suo
    principale referente mondiale vincente nella persona del presidente Trump. Rimane
    molto forte la presenza repubblicana al Senato, ed in ogni caso, pur con la vittoria di
    Biden, l’America appare profondamente divisa. È giusto perciò un giudizio positivo
    sull’esito delle elezioni, ma è fuori luogo un eccesso di ottimismo. Molto dipenderà,
    com’è ovvio, dalle politiche del nuovo presidente e dalle politiche dei Paesi dell’UE,
    se cioè tali politiche rimuoveranno parzialmente o totalmente le cause che hanno
    determinato il consenso alle parole d’ordine populiste, oppure se, non mutando o non
    mutando a sufficienza lo stato di cose presente, il populismo ritroverà il passo e il
    consenso del recente passato.
    La presumibile uscita degli States dall’isolazionismo protezionistico di Trump, cosa in
    sé positiva, apre obiettivamente degli interrogativi sulla politica estera del nuovo
    presidente. Se cioè prevarrà la cultura della pace e della negoziazione, oppure se
    torneremo all’interventismo armato, o comunque a forme nuove di guerra fredda. Sono
    troppi i punti di potenziale crisi per non nutrire questa preoccupazione, dal Medio
    Oriente all’America Latina, ai rapporti con la Cina e con la Russia. Per questo, in una
    breve dichiarazione relativa all’elezione di Biden, ho affermato che “auspichiamo una
    nuova politica dichiaratamente antirazzista e antifascista. Prevalgano finalmente la
    cooperazione internazionale, la coesistenza pacifica, l’abbattimento di ogni muro”. È
    in sostanza il tema della pace nel mondo.
    Aggiungo, a questo proposito, un punto che ci sta particolarmente a cuore perché fa
    parte del Dna dell’Anpi: il rispetto dei diritti umani in quanto storicamente universali.
    Sovente in questi decenni in occidente si è sottolineato il tema dei diritti umani in alcuni
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    casi anche con carattere pretestuoso e a fini bellici: penso all’Iraq, alla Libia, alla Siria.
    Ma assieme si sono ignorate altre realtà: dalle petromonarchie, a cominciare
    dall’Arabia Saudita, al conflitto israelo-palestinese, alla situazione in Ucraina, al Cile
    precedente alla svolta recente in cui si è approvata a furor di popolo una nuova
    Costituzione democratica. Penso ancora, per esempio, ai bambini che lavorano per le
    multinazionali o ai comportamenti dei contractors. In realtà il tema dei diritti umani è
    una grande questione mondiale, trasversale ai sistemi politici ed economico sociali, con
    diversi aspetti e livelli di gravità.
    Tornando alle elezioni: esse confermano che, nonostante la sconfitta, Trump, pur
    avendo perso una parte non irrilevante di classe operaia, gode ancora di un altissimo
    consenso popolare nella middle class bianca, fra gli ispanoamericani, fra i ceti meno
    acculturati e più in generale nella grande provincia.
    Con le debite proporzioni, analogo fenomeno è presente in Europa dove il malessere
    popolare si è orientato in grande parte verso i cosiddetti populisti, quanto più la crisi
    mordeva le condizioni socioeconomiche. In assoluto il fenomeno non è nuovo: basti
    pensare alla crescita del consenso verso i fascismi nel primo dopoguerra in tanti Paesi
    europei, in primis in Italia e successivamente in Germania. Come già detto nel
    Comitato nazionale dell’11 settembre, la destra nel mondo è prevalentemente
    schiacciata oggi su posizioni sovraniste radicalizzando i conservatori, in una sorta di
    rivoluzione conservatrice.
    Il sostegno finanziario dell’UE verso i Paesi colpiti dal Covid è senz’altro il segno di
    un’inversione di tendenza, seppure messa in discussione proprio dai Paesi – Ungheria
    e Polonia, e anche Slovenia – più vicini alle destre nazionalpopuliste italiane, ed anche
    dai Paesi cosiddetti frugali. Ma tale sostegno finanziario, pur necessario, non è
    sufficiente per rappresentare una decisa correzione di rotta nella navigazione europea.
    L’UE rimane un gigante (con qualche ammaccatura) economico, ma è ancora un nano
    politico. Emerge in sostanza una relativa ininfluenza dell’Unione su scala mondiale ed
    una massa poco produttiva di rapporti conflittuali e di inerzie. Non si sono ancora
    sciolti i nodi di una politica europea verso le emigrazioni, mentre sempre più il
    Mediterraneo diventa la grande fossa comune del nuovo secolo. In prospettiva è da
    vedere se le migliorate relazioni con gli Stati Uniti porteranno alla ricostruzione di leali
    relazioni di amicizia nel rispetto delle alleanze, salvaguardando l’autonomia dell’Ue,
    oppure si tornerà a forme antistoriche di subalternità e, in particolare sul piano
    economico, a nuove guerre commerciali dell’occidente contro l’oriente. Oggi si
    confrontano tre grandi potenze economiche e commerciali: Stati Uniti, Cina, Unione
    Europea. Nel rispetto delle alleanze politiche e militari, la salvaguardia degli interessi
    economici dell’Unione è nella sua autonomia ed in una visione multilaterale e
    cooperativa dei rapporti internazionali, come fra l’altro recentemente auspicato da
    Macron.
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    Questa complicata situazione di difficoltà e di possibilità è ulteriormente avvelenata
    dal periodico presentarsi di forme estreme di terrorismo, che alimentano l’islamofobia
    e possono fomentare il rischio di una guerra di religione. Qui va solo rimarcato, contro
    ogni eurocentrismo, che il terrorismo di radici Isis non è presente solo in Europa, ma
    anche in Asia e specialmente in Africa con stragi inenarrabili.
    Oggi, in una diversa circostanza storica e geopolitica rispetto al primo dopoguerra, i
    populismi-nazionalismi trovano concime per il loro sviluppo nelle situazioni di crisi
    mettendo non solo i poveri contro i più poveri, ma anche i garantiti contro i non
    garantiti, con l’alibi non sempre ingiustificato di una crociata dei “popoli” contro le
    élites.
    In questo scenario domina la crisi della democrazia nelle sue cattedrali – per dirla con
    Ferdinando Pappalardo – cioè nei Paesi con più lunga storia e tradizione democratica.
    Ma va sottolineato che tale crisi non è frutto dell’ondata populista bensì viceversa. La
    crisi della democrazia infatti è frutto del mancato governo della globalizzazione e del
    prevalere dell’economia sulla politica. Questa inversione di ruoli è alla base
    dell’inversione di valori che hanno ispirato il senso comune, la cultura e la vita
    quotidiana degli ultimi trent’anni, con conseguenze nefaste sul piano della coesione
    sociale.
    Su questo punto, una conclusiva: colpisce, nel dibattito pubblico e specificamente
    politico, la scomparsa del capitolo analisi della situazione internazionale.
    L’Italia
    Questo insieme di fattori ha determinato in Italia una contraddizione lacerante nelle
    forze democratiche che per storia e principi si riferivano ai ceti popolari.
    Il percorso di conquiste sociali avviatosi con la repubblica e la Costituzione e reso
    evidente nei decenni successivi – in particolare negli anni 70 con le leggi sul divorzio,
    dell’aborto, lo statuto dei lavoratori, l’abolizione delle gabbie salariali,
    l’industrializzazione del sud, il nuovo diritto di famiglia, il servizio sanitario nazionale
    – si è rapidamente e traumaticamente invertito nei decenni successivi, durante i quali
    gran parte di queste conquiste è stata erosa o svuotata. Basti pensare agli attacchi al
    servizio sanitario nazionale o alle tutele del lavoro. Il dominio dell’economia sulla
    politica ha portato a scelte presentate sempre come inevitabili a causa, appunto, della
    globalizzazione, e alla demonizzazione di qualsiasi alternativa economico sociale. È
    prevalsa una visione angelicata del privato e una sorta di damnatio memoriae dello
    Stato, concesso solo come Stato minimo o come supporto finanziario all’impresa e
    progressivamente evaporato come welfare, servizi, pubblico. L’impalcatura
    costituzionale incardinata sul fondamento del lavoro è stata incrinata e spesso più o
    meno velatamente messa sotto accusa.
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    In questo scenario, a fronte di un progressivo defilarsi delle forze democratiche e di
    sinistra e davanti agli effetti della crisi avviatasi nel 2007-2008, è cresciuta una sorda
    protesta popolare, progressivamente incanalatasi verso l’astensione e poi verso un
    consenso alle forze populiste e poi ancora verso le forze populiste-nazionaliste. Si è
    determinato un corto circuito nella rappresentanza degli interessi sociali con leggi
    elettorali che di fatto la riducevano o non la consentivano, nel momento di maggior
    bisogno di tale rappresentanza. Il principio stesso della rappresentanza è stato messo
    progressivamente in sott’ordine perché visto in qualche modo come alternativo all’idea
    di governabilità, creando così sfiducia e crescente rancore sociale, sedimentatosi nel
    consenso alle forze nazionalpopuliste.
    Se questo è vero, occorre chiedersi su quale moderno blocco sociale si reggano tali
    forze e occorre conoscere meglio la composizione del consenso sociale alla destra
    attuale in Italia e le ragioni di tale consenso.
    Ad una prima lettura, si tratta di un coacervo di ceti e di professioni con una particolare
    propensione per i ceti medi declassati. A ciò si aggiungono lavoratori dipendenti a
    tempo determinato e indeterminato, ceti marginali di varia natura (sottoproletariato
    moderno), ceti abbienti spesso parassitari. La destra sovranista, in sostanza, è riuscita
    a creare quella “connessione sentimentale” con parti rilevanti del popolo su cui hanno
    fallito le forze democratiche e di sinistra. Peggio: in molti casi la destra ha di fatto
    ereditato il consenso sociale smarrito dalle forze di sinistra. L’accezione di popolo
    nella lettura sovranista è quella di un gruppo sociale coeso e privo di contraddizioni,
    che guarda all’altro come un nemico esterno o interno, e che si rivolge all’uomo forte
    senza mediazioni istituzionali e sociali. In questa accezione, il consenso alla destra
    sovranista da parte del suo elettorato è consistente, e le stesse ultime dinamiche
    elettorali non rivelano un travaso dalla destra alle forze democratiche, ma tutt’al più
    degli spostamenti interni allo stesso campo, con Fratelli d’Italia che cannibalizza
    progressivamente parte dell’elettorato leghista. Va notato in ogni caso che le destre
    sovraniste propongono obiettivamente una visione del mondo articolata e dal loro
    punto di vista conseguente, mentre la più grande forza democratica – il Pd – non
    propone una coerente narrazione, o meglio propone narrazioni diverse e
    contraddittorie. Altra è la riflessione per Forza Italia, che tende a distinguersi dal
    mondo sovranista, si propone al governo in modo più collaborativo, si presenta come
    una forza liberale.
    Il consenso alle forze democratiche è consistente nei ceti medi una volta definiti
    “riflessivi” e si estende comunque ai ceti colti o popolari, ma politicizzati. La stessa
    definizione di “forze democratiche” si riduce il realtà al Pd con qualche marginale
    formazione centrista, con una piccola formazione di sinistra (Liberi e Eguali) e un certo
    numero di partitini di estrema sinistra non rappresentati in parlamento e di fatto
    inconsistenti. Va però detto che il Pd, come le altre forze di sinistra, mantiene una
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    chiara connotazione antifascista. Non sta all’Anpi entrare a gamba tesa nel dibattito
    politico e tanto meno sostituirsi al ruolo di un partito. Ma è indubitabile che manca non
    all’Anpi ma all’Italia una formazione deputata alla prevalente rappresentanza politica
    del mondo del lavoro. Sta di fatto che la metafora della situazione è il voto nelle
    periferie romane, dove prevale la destra, mentre ai Parioli prevalgono le forze
    democratiche. Un paradosso che ci interroga profondamente e richiede un
    ripensamento generale alla luce della questione della rappresentanza.
    Più in generale le forze che chiamavamo dell’antipolitica si sono ridislocate,
    dimezzando i 5stelle che sono sempre più partito e sempre meno movimento com’era
    inevitabile governando il Paese, e irrobustendo i due partiti nazionalpopulisti. A loro
    volta l’antipolitica, che storicamente è sempre stato il prodromo di torsioni autoritarie,
    si è rivelata, com’era ovvio, semplicemente una forma costitutiva della politica di
    estrema destra. Ma il veleno è stato diffuso come sfiducia o rancore in quanto tale
    verso “la politica”, le poltrone, le élites e via dicendo. Paghiamo e pagheremo a lungo
    il prezzo di questo discredito che ha basi storiche e materiali e che riguarda anche il
    cambiamento di natura dei partiti: ciò che oggi viene percepito è che i partiti
    promuovono nelle istituzioni figure scelte non per competenza ma per appartenenza.
    Dunque risalire la china del discredito comporta anche, se non in primo luogo, una
    profonda riflessione sulla natura dei partiti attuali.
    È interessante il posizionamento dell’industria media e grande: a giudicare dalle
    posizioni del presidente di Confindustria, ciò che si chiede è prevalentemente
    l’appoggio del governo al rifinanziamento del sistema industriale e il contrasto con le
    organizzazioni sindacali; una mano libera totale che però non rivela una specifica e
    organizzata simpatia verso le forze sovraniste per un motivo ovvio: non esiste oggi in
    Italia un credibile partito puramente liberista e sufficientemente rappresentativo (è
    evidente il rapido declino di Forza Italia). Esistono invece correnti sia nel Pd che nelle
    forze di destra che esprimono siffatto punto di vista. La questione essenziale è il ruolo
    dello Stato, visto da parte imprenditoriale quasi esclusivamente come una fonte di
    sovvenzione del privato.
    Non si può in sostanza negare che oggi una parte rilevantissima del complesso mondo
    del lavoro non è orientata verso le forze democratiche, non si sente da essa
    rappresentata. A sua volta il mondo del lavoro presenta un’articolazione del tutto
    nuova, con lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e determinato, a loro volta con
    infinite differenze e sfumature, con caratteristiche contrattuali quasi sempre al ribasso,
    e con lavoratori autonomi anch’essi di varia natura, con una forte presenza di partite
    Iva e con una fortissima articolazione. E’ presente ma sempre più raro l’operaio della
    grande fabbrica, mentre sono diffuse figure contrattuali e professionali eterogenee. Le
    peggiori condizioni salariali e di lavoro sono mediamente sostenute da lavoratori
    emigrati, con punte di illegalità di particolare efferatezza, che rasentano lo schiavismo
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    e che sono spesso connesse ad organizzazioni criminali. Particolarmente disagiata è la
    condizione del lavoro giovanile, dove al titolo scolastico non corrisponde più un
    analogo livello professionale, ma un lavoro mediamente dequalificato. È quasi del tutto
    scomparso il posto fisso, esso è sostituito spesso da lavori a termine, qualche volta
    pericolosi, mal retribuiti, non gratificanti. Si smarrisce così la consapevolezza del
    proprio lavoro e la sua dignità. Per molti ragazzi (ma oramai anche per tanti giovani
    adulti) non c’è più la certezza di una pensione sufficiente, come è invece per i loro
    padri (e neanche tutti), e la stessa vita sociale delle giovani generazioni, così deprivate
    di speranze e di culture, si riduce al “muretto”, al bar, alle connessioni sui social, nella
    scomparsa dei tradizionali centri di aggregazione come case del popolo, centri sociali
    e luoghi del tempo libero, sezioni di partito comprese. Abitudini, valori, linguaggio,
    stili di vita delle giovani generazioni differiscono in modo radicale da quelli delle
    precedenti generazioni. Il punto di svolta e di rottura temporale è il web e l’uso dei
    social.
    In Italia persiste una struttura economico-corporativa della società, con una borghesia
    imprenditoriale in alcuni casi di alto livello, ma in altri casi per così dire stracciona:
    penso allo scandalo di questi giorni relativo al gruppo dirigente di Atlantia, cioè
    Benetton, all’arresto del fondatore di Facile.it, al sequestro di tutti i beni dell’impresa
    StraBerry di Milano di qualche mese fa. È’ da notare che su fronti diversi queste
    imprese erano all’avanguardia dell’innovazione. Penso inoltre alla presenza della
    mafia in tante imprese del sud e del nord.
    Penso infine all’evasione e all’elusione fiscale da parte in particolare di grandi imprese
    e di multinazionali, al loro giocare senza regole e a tutto campo, al loro potere
    sterminato e incontrollato, tema che rinvia immediatamente, come accennato all’inizio,
    al mancato governo della globalizzazione.
    Tutto ciò – sia chiaro – non comporta affatto una condanna del mondo
    dell’imprenditoria come tale, ma pone all’ordine del giorno una nuova e pesantissima
    questione morale, giuridica e politica. A ciò si aggiungono fratture sociali che tendono
    ad allargarsi come quella fra lavoro dipendente e autonomo, fra pubblico e privato, fra
    nord e sud, fra giovani e anziani, e più in generale fra garantiti e non garantiti. In parole
    povere un nuovo esercito è cresciuto in questi anni e crescerà ancor di più col
    dopocovid: l’esercito degli invisibili. Infine comunque vada a finire l’Italia si troverà
    con un enorme debito pubblico e con la necessità di ripianarlo. Questo scenario di gravi
    difficoltà potrebbe aprire nuove e ulteriori praterie per i nazionalpopulisti.
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    La pandemia
    La situazione politica attuale nel Paese differisce da quella dell’estate ed anche da
    quella del lockdown. I provvedimenti degli ultimi Dpdc sono stati vissuti non come
    un’articolazione dei divieti proporzionata ai diversi livelli di pandemia nelle diverse
    regioni, ma come un insieme di decisioni confuso e in parte contraddittorio. Sono vere
    entrambe le letture: da una parte il tentativo di limitare i danni causati dai
    provvedimenti restrittivi, in qualche modo concordandoli con le regioni; dall’altra i
    ritardi legati a un mancato e compiuto lavoro preventivo pur nella consapevolezza
    dell’estrema probabilità della cosiddetta seconda ondata. Ma rimane il comportamento
    davvero censurabile di molti presidenti regionali in merito all’assunzione di
    responsabilità, che rinvia alla più generale questione del Titolo V.
    È cambiata profondamente la percezione popolare della pandemia rispetto ai tempi del
    lockdown allora, in una parola, razionale, oggi con fortissime punte di irrazionalità.
    In questo scenario si collocano i violenti attacchi dei due partiti nazionalpopulisti,
    l’atteggiamento più collaborativo di Berlusconi, le ripetute tensioni con Italia Viva.
    L’appello all’unità ripetutamente ed energicamente lanciato dal Presidente della
    repubblica sembra rinviare a una prevalente responsabilità prevalente dell’opposizione
    sovranista, demagogica e contraddittoria, ma anche – va detto – a uno sforzo unitario
    forse troppo limitato da parte del presidente del consiglio. Peraltro stanno scoppiando
    le contraddizioni nella destra fra Berlusconi e Salvini e la Meloni.
    Ma ciò su cui è opportuno soffermare l’attenzione è il grave malessere sociale che si è
    manifestato in tanti modi e che richiede un’ampia copertura finanziaria del governo.
    Per la verità tale copertura sembra in essere. Si vedrà se è sufficiente. In ogni caso il
    malessere rivela una inedita qualità della questione sociale, illuminando un’Italia dei
    mille mestieri di un ceto medio basso, popolare, spesso disperso, che si arrangia con
    professionalità più o meno riconosciute e che corre il rischio di essere decimato dagli
    effetti delle limitazioni. Sembra che sia questo il ceto più colpito, e a cui si rivolgono i
    neofascisti, che utilizzano la crisi per dar vita ai noti comportamenti eversivi.
    Colpisce che un recente sondaggio per cui il 36% degli italiani critica i provvedimenti
    perché troppo blandi, mentre solo il 26% li critica per l’opposta ragione.
    Oggi siamo di nuovo in una gravissima emergenza sanitaria, scandita dal conto
    quotidiano dei contagi e dei decessi e dove alla crisi economica – si badi bene – si
    somma una drammatica caduta di socialità, che determina un crescendo di solitudini e
    di individualismi che incidono sulla coesione sociale.
    In questi anni, e in forme precipue in questo terribile 2020, abbiamo assistito al
    procedere carsico di una subcultura influenzata da modelli di tipo fascistico, razzistico,
    nazionalistico, cioè da modelli di consapevole contrasto alle conquiste
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    dell’illuminismo e di revisionismo storico a partire dalla Rivoluzione francese (per poi
    giungere, ovviamente, alla Resistenza). Nel 2020 in questa subcultura si è innestato, a
    proposito del covid, il “pensiero magico”, negazionista, riduzionista, complottista,
    antivax, e così via. Non è un caso che nei Paesi con al governo la destra sovranista si
    siano adottate poche cautele contro la pandemia con risultati catastrofici. Ma ciò che
    ora si vuole mettere a fuoco è che l’insieme di queste subculture, profondamente
    penetrate nel senso comune e innervate di irrazionalismo, ha determinato una
    escalation di violenze immotivate, o per futili motivi, o per motivi razziali, o per motivi
    di gerarchia di genere. In particolare va sottolineato il tema della violenza contro le
    donne anche perché, a differenza delle altre forme di violenza, non si scaglia contro
    una minoranza ma contro l’altro genere e si configura perciò come puro esercizio di
    potere e di coercizione gerarchica. Tali violenze si manifestano in forme diverse, da
    quella psicologica e fisica a quella sessuale, dallo stalking allo stupro, al femminicidio.
    In generale la frequenza delle violenze era ovviamente precedente alla pandemia, ma
    nell’ultimo anno hanno assunto un carattere paradigmatico. Prendo due esempi: a
    livello nazionale l’assassinio di Willy Monteiro Duarte, a livello internazionale quello
    di George Floyd. C’è appena da accennare allo stretto rapporto fra fascismo e violenza:
    certo, non tutte le violenze sono riconducibili al fascismo, ma tutti i fascismi sono
    riconducibili alla violenza. Se aggiungiamo l’involgarimento e spesso
    l’imbarbarimento del dibattito pubblico, concludiamo che siamo in sostanza davanti a
    una allarmante regressione di civiltà e di costumi.
    Considerazioni conclusive
    È il momento di trarre alcune considerazioni da questa situazione così complessa,
    contraddittoria e grave. Vige una generale incertezza, perché non è dato sapere né
    quando né come terminerà il dramma della pandemia, e tale incertezza di per sé
    condiziona il futuro per il mondo e per l’Italia. L’unica cosa certa – è stato scritto – è
    che con la pandemia i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri.
    L’anello debole principale della tenuta sociale è oggi dato sia da una middle class
    declassata e puntiforme, sia dall’esercito degli invisibili verso cui precipita parte della
    classe media, verso cui va la prestata la massima attenzione per le reali e gravissime
    difficoltà in cui versano, e anche per evitare l’esplosione di gravi tensioni sociali di cui
    ad oggi abbiamo avuto solo qualche segnale. Le azioni eversive dei fascisti sono la spia
    di un allarme democratico già evidente per le sconnessioni sociali, e mettono all’ordine
    del giorno una vera politica antifascista e antirazzista da parte del governo. Tale politica
    non è evidente e pare alle volte del tutto opaca nelle azioni e nelle dichiarazioni della
    ministra dell’Interno.
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    Il pessimo rapporto con le Regioni, lo scaricabarile di diversi loro presidenti, il loro
    ruolo oramai del tutto personalizzato e spesso al di fuori dei loro stessi partiti, pone a
    tema urgente, in un più ampio ragionamento sullo Stato, una riflessione sul Titolo V
    della Costituzione. Occorre salvaguardare maggiormente il fondamento dell’unità
    nazionale e garantire davvero l’eguaglianza dei diritti, dei servizi e delle tutele dei
    cittadini su tutto il territorio nazionale. A maggior ragione è inattuabile e inaccettabile
    qualsiasi programma di autonomia differenziata. La sostanza è che il buon dottor Jekill
    del presunto decentramento federalista si è concretamente trasformato nel malvagio
    mister Hide di una forza centrifuga rispetto al fondamento dell’unità nazionale.
    In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un ulteriore abbassamento della guardia nei
    confronti dei fenomeni di revisionismo storico, con una tendenziale equiparazione
    delle due parti in conflitto durante la Resistenza. Ma l’ultimissima generazione di
    storici sembra contrastare questa deriva con una rinnovata vis polemica. E’ opportuno
    che l’Anpi aggiunga alla relazione con storici della precedente generazione il rapporto
    con quest’ultima generazione che ha introdotto un interessante plus di impegno civile.
    Occorre insomma attrezzarsi per tempo a una battaglia che è sempre stata politica e che
    oggi ha i suoi bastioni a destra con le foibe, le speculazioni su Norma Cossetto, la
    risoluzione del parlamento europeo, e che riporti al centro del dibattito le gravissime
    responsabilità del fascismo: nel 39 l’Italia invadeva l’Albania, fa l’Italia entrava in
    guerra attaccando la Francia e poi la Grecia e poi, nel 1941, la Jugoslavia.
    Da sempre l’Anpi ha operato nella direzione del contrasto ai neofascismi. Usciamo in
    particolare da stagioni di grande lavoro su questo terreno. Consapevoli che oggi questo
    impegno, pur necessario, non è più sufficiente, dobbiamo rapidamente aggiornare il
    nostro programma a questo proposito, cosa che faremo come segreteria e forse anche
    come presidenza nelle prossime settimane.
    Il lavoro è propriamente campo dell’attività sindacale. Qui accenno soltanto al fatto
    che il covid ha costretto a cambiamenti radicali nell’organizzazione del lavoro, penso
    per esempio allo Smart working. Più in generale va affrontato il tema dell’integrazione
    degli stranieri nel mondo del lavoro. Si tratta di una questione essenziale sia per la
    diminuzione di manodopera italiana causata dal crollo demografico, sia per l’equilibrio
    finanziario degli istituti di previdenza, sia per la diffusione del lavoro nero e del lavoro
    schiavile a cui sono costretti migliaia e – credo – decine di migliaia di lavoratori
    stranieri. Tutto ciò non ci può impegnare in prima persona, ma ci chiama all’appoggio
    del movimento sindacale col quale dobbiamo cementare i già ottimi rapporti.
    Il rapporto con le giovani generazioni è una priorità in generale e una priorità specifica
    per l’Anpi, perché esse sono il punto di intersezione più evidente col malessere delle
    periferie, perché l’Italia, come già detto, è uno dei Paesi col più alto tasso di crisi
    demografica, perché inevitabilmente una parte sempre maggiore delle nuove
    generazioni sarà formata da migranti di seconda o terza generazione, perché il
    11
    fenomeno migratorio dei giovani italiani in cerca di lavoro all’estero è sempre più
    consistente, perché da questa generazione nascerà il gruppo dirigente di domani. Negli
    ultimi decenni la cultura dominante ha contrapposto gli interessi delle giovani
    generazioni a quelli degli adulti e degli anziani, contribuendo a creare nei giovani un
    senso di abbandono e di solitudine e contemporaneamente alzando l’età pensionabile
    per poi scoprire, al tempo del covid, che gli anziani sono più fragili degli altri. Questa
    cultura negativa e divisiva va combattuta proponendo una grande alleanza fra
    generazioni unita dai fondamentali.
    I temi di una vita sociale “sostenibile” e della lotta al riscaldamento globale sono propri
    delle ultime generazioni, i millennials e la generazione Z. Gli effetti del riscaldamento
    globale stanno già avvenendo con esito potenzialmente catastrofico per la comunità
    umana. Non si tratta più – né mai lo è stato – di un tema per così dire aggiuntivo, ma
    di una questione centrale. Per di più sono proprio queste le generazioni con maggiore
    sensibilità ed attenzione al tema.
    Per queste ragioni uno dei terreni di maggiore impegno dell’Anpi dev’essere quello
    della formazione, in specie nella scuola e nelle università. L’accordo Anpi Miur può
    essere un punto di partenza per una ricontrattazione che comprenda progetti complessi
    e a lungo termine e si rivolga ai discenti e ai docenti in un più generale disegno di
    riqualificazione civile della formazione.
    Ancora sugli anziani: la crisi della socialità, la chiusura coatta dei luoghi di incontro
    costringe intere fasce di anziani, già sotto scacco per il pericolo del virus,
    all’isolamento forzoso, ad una solitudine tanto più triste quanto più avanzata è l’età.
    L’unica risposta è, per quanto possibile, una prossimità verso questa fascia che è la più
    debole e spesso la più sola.
    Il dramma della pandemia mette a tema in modo nuovo e contestuale tre questioni: la
    presenza pubblica nell’economia, dopo decenni di demonizzazioni del pubblico e di
    privatizzazioni, a cominciare dalla sanità; la fruizione dei beni comuni, cioè delle
    risorse materiali e immateriali condivise dalla comunità: posso fare di questi un solo
    esempio per così dire di tipo nuovo? Il vaccino anti Covid; la sostenibilità ambientale.
    Tutti argomenti che mettono in discussione il postulato della società di mercato; non è
    in discussione – sia chiaro – l’importanza dell’economia di mercato; sono in
    discussione i limiti di tale economia e una organizzazione sociale e civile modellata sul
    mercato. Non si tratta soltanto – per esempio – della riduzione dei cittadini a
    consumatori. Ne è investita persino la politica, che “non è più una sana discussione sui
    progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette
    effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace”
    (dall’enciclica Fratelli tutti, ottobre 2020).
    12
    Da Hobbes a Rousseau, il tema della sicurezza ritorna come ragione dell’esistenza
    stessa dello Stato. Noi dobbiamo forse tornare sull’argomento, contrastando le visioni
    forcaiole di tanta parte della destra che sovente trasforma questioni di ordine sociale in
    questioni di ordine pubblico. Va da sé che il senso di sicurezza dei cittadini va ben oltre
    le questioni di ordine pubblico e investe l’insieme delle attività dello Stato (compreso
    il tema della sicurezza sanitaria) e, nello specifico, attiene al corretto rapporto fra
    prevenzione e repressione dei reati. Noi dobbiamo ragionare sul tema dell’ordine
    democratico, cosa vuol dire, come si realizza, cosa comporta. Accenno solo a pochi
    temi: periferie, migranti, incidenti sul lavoro. Aggiungo: sicurezza come tutela della
    democrazia e delle sue istituzioni E concludo accennando allo spirito repubblicano che
    dovrebbe ispirare l’istituzione delle forze dell’ordine, cosa che avviene spesso, ma non
    sempre. Cito per esempio la recente promozione a vicequestore di due agenti di polizia
    condannati per i fatti di Genova, e ancor di più la motivazione di tale promozione
    causata, parole dei dirigenti, da “procedura amministrativa obbligata”.
    La proposta
    Ma arrivo ora a quello che vorrei fosse il cuore di questa relazione, la sua conclusione,
    la base ideale dei nostri compiti e delle nostre prospettive. Mi pare che noi dobbiamo
    avere una capacità di visione, cioè immaginare il futuro e praticare di conseguenza
    delle scelte. A lunga scadenza, si propone il tema di una nuova statualità, cioè di un
    nuovo rapporto fra Stato (nelle sue più ampie articolazioni), società, corpi intermedi,
    che da un lato rilanci la repubblica alla luce delle lezioni della modernità, dall’altro
    torni allo spirito e anche alla lettera della Costituzione tramite la sua applicazione
    integrale e la piena attuazione dei diritti e dei doveri dei cittadini. Una nuova statualità
    non può che nascere da una grande “riforma intellettuale e morale” che richiede
    soggetti, energie e progetti ancora assenti, che vanno suscitati anche grazie
    all’associazionismo e al volontariato laico e cattolico. Questa è la risposta plausibile
    alla crisi della democrazia liberale, la cui unica soluzione è una democrazia sociale
    comprensiva dei suoi caratteri liberali, ma che si espande dando finalmente
    compimento alla prima e specialmente alla seconda parte dell’art. 3 Cost.
    Questa riforma intellettuale e morale è un atto propriamente culturale, richiede cioè la
    comunione del patrimonio dei saperi e delle esperienze e il ruolo attivo del complesso
    mondo degli intellettuali contemporanei, e assieme richiede, come già detto, un
    progetto di riqualificazione della formazione, cioè della scuola e dell’università. La
    principale operazione culturale da fare è esattamente il contrario della cultura elitaria,
    perché si tratta di una trasmissione culturale che penetri nel profondo della società, nel
    suo ventre, dove allignano ignoranza e qualunquismo.
    In questa grande prospettiva di cambiamento che dev’essere sostenuta in primo luogo
    dall’Anpi in un più ampio movimento popolare, si incarna e si inquadra l’antifascismo
    di oggi, che non può ridursi alla ovviamente necessaria negazione del fascismo, ma
    13
    dev’essere conoscenza e coscienza della storia recente del Paese, e puntare sulla
    centralità della persona umana e dell’essere sociale. Della persona, perché la sua
    centralità è scomparsa nell’orizzonte reale del sistema di valori dominante, pur essendo
    il fulcro della Costituzione. Dell’essere sociale, perché la persona esiste e si realizza
    esclusivamente nelle relazioni con l’altro nello spazio e nel tempo. Le relazioni nello
    spazio sono quelle che determiniamo ogni giorno e coincidono con la nostra vita e con
    il lavoro. Le relazioni nel tempo sono quelle che determiniamo tramite la memoria,
    cioè il rapporto con persone ed eventi del passato. La memoria è uno degli attributi
    dell’umanità in quanto esseri sociali. La grande scatola sociale della memoria, cioè del
    segno di ciò che è avvenuto, è la condizione per pensare a ciò che avverrà, cioè al
    futuro. Anche da questo punto di vista è attuale la nostra idea di memoria attiva. La
    persona e il suo essere sociale sono il soggetto della Costituzione, che definisce diritti
    e doveri dell’umano “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
    personalità” (art. 2 Cost.).
    In questa misura l’antifascismo si deve riproporre come religione laica, repubblicana,
    da un lato, e come punto di convergenza di diverse culture dall’altro, in sostanza come
    cemento ideale e pratico di un nuovo blocco sociale che porti l’Italia fuori dalle secche
    della crisi utilizzandola come occasione del cambiamento, ciò che non è avvenuto in
    occasione della prima crisi, avviatasi in America nel 2007/8 e che rischia di non
    avvenire anche in questa drammatica circostanza. In una visione del mondo che mette
    al centro le persone e i comportamenti politici, sociali e culturali che ne conseguono,
    l’antifascismo del tempo d’oggi si può legittimamente definire un nuovo umanesimo.
    In questo scenario vanno contestualizzati i valori generali che abbiamo ereditato dalla
    Resistenza, e cioè giustizia sociale, libertà, democrazia, solidarietà, pace.
    Ciascuno di questi temi va riconiugato nella concretezza della situazione attuale,
    uscendo dalle secche dell’enfasi e della retorica e ricercandone il senso nelle diverse
    articolazioni della società, ma anche e per alcuni versi specialmente nelle diverse
    articolazioni dello Stato.
    Una speciale attenzione va posta nei rapporti col mondo cattolico oggi profondamente
    diviso. In particolare nella lettura dell’enciclica Fratelli tutti si troveranno diversi punti
    di larga condivisione, sui quali è possibile un percorso comune con l’associazionismo
    che in forme dirette o indirette si riferisce al mondo cattolico. Più in generale va notato
    che su punti qualificanti l’aspra competizione interna alla chiesa cattolica fra Bergoglio
    e i suoi critici corrisponde alla competizione fra democratici e nazionalpopulisti nel
    mondo, e che l’insieme del pensiero del pontefice ruota attorno al valore della persona
    umana, valore da noi laicamente condiviso.
    Su tutti questi temi dobbiamo immaginare un programma di aggiornamento dei nostri
    gruppi dirigenti con particolare attenzione ai temi del fascismo, del razzismo e delle
    14
    tensioni sociali sullo sfondo della Costituzione. Dovremo studiare anche la ricaduta di
    questi temi sui programmi di formazione.
    Ma va da sé che, se si condividono le cose che ho detto, dobbiamo impegnarci nella
    lenta e faticosa costruzione di un vastissimo fronte popolare che deve passare attraverso
    la mobilitazione del mondo dell’associazionismo e del volontariato e deve trovare
    alleanze e sponde nei partiti democratici e nelle istituzioni. La chiave unitaria è l’unica
    chiave possibile per combattere il degrado e per avanzare una risposta positiva che
    comprenda il contrasto a fascismi, razzismi, nazionalismi e disegni un passo avanti di
    civiltà.
    Quello che propongo in sostanza è che l’Anpi sia promotrice di una grande alleanza
    democratica e antifascista per la persona, il lavoro e la socialità. Un’alleanza che
    unisca tendenzialmente ogni energia disponibile dell’associazionismo, del
    volontariato, del cosiddetto Terzo settore, del movimento sindacale, un’alleanza che
    guardi al dramma presente attraverso i valori della solidarietà e della prossimità, – due
    parole chiave – ma guardi al futuro, affinché l’Italia del dopo Covid non sia la
    restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma si avvii sulla
    strada del cambiamento. Un solo esempio: il recente passato ha visto il trionfo delle
    diseguaglianze. O ci sarà una svolta vera, oppure il futuro le riproporrà in forma ancora
    più grave. E cosa può essere questa alleanza se non un’alleanza per la Costituzione?
    So bene che è prospettiva difficile per la realtà di un Paese che manifesta oramai una
    fortissima presenza dell’estrema destra a fronte di una debolezza politica delle forze
    democratiche, ma proprio per questo oggi non basta più rispondere colpo su colpo,
    giocare di rimessa; c’è bisogno di avviare un processo di ricostruzione pur navigando
    a vista, partendo dall’interno della società, ricomponendo ciò che è disperso, unendo
    ciò che è diviso, restituendo socialità dove c’è solitudine.
    Riconvocheremo penso a dicembre il famoso tavolo dei 23, ripensandolo
    profondamente, allargandolo in modo significativo e operando in quantità e in qualità.
    In quantità dovremo estendere gli inviti ad altre grandi associazioni laiche e cattoliche
    interessate a questo progetto, in qualità perché dovremo proporre una unità antifascista
    che comprenda il contrasto ai fascismi e ai razzismi ma vada oltre, e proponga idee,
    suggerimenti, suggestioni, perché oggi un grande cambiamento antifascista è un grande
    cambiamento generale sulla via della civiltà e del progresso sociale. Noi dobbiamo
    contribuire a creare una nuova prospettiva. L’Anpi può essere il sale, il detonatore,
    l’innesco di una proposta generale incardinata sull’attuazione della Costituzione e
    declinata nel tempo che viviamo. Se si vede bene, non è una novità assoluta. Come ci
    ha ricordato Smuraglia in una lunga mail dell’aprile di quest’anno, ci sono momenti
    della vita nazionale in cui l’Anpi di sempre – scriveva – dev’essere qualcosa di più
    incisivo e aggiornato. E il presidente emerito faceva due calzanti esempi: contro la
    legge truffa nel 1953, contro Tambroni nel 1960. Siamo in uno di quei momenti di
    15
    svolta con una differenza: allora intervenimmo giustamente contro. Oggi dobbiamo
    intervenire per. Per la repubblica, per il lavoro, per la rinascita, per la riforma
    intellettuale e morale. Su questi temi ho sondato il terreno di una disponibilità per ora
    con Maurizio Landini, Anna Maria Furlan, Don Ciotti, Francesca Chiavacci, Beppe
    Giulietti, Mattia Santori e Jasmine Cristallo, del movimento delle sardine e ho trovato
    un consenso davvero molto forte e motivato. Perché? Perché vedono nell’Anpi quei
    fondamentali di cui parlavo all’inizio.
    Quando tutto è in crisi si guarda a chi ha i fondamentali. E dobbiamo uscire dal
    Comitato nazionale con un’idea che esprima preoccupazione e fiducia, che inneschi un
    motore per uscire dalla crisi, che proponga, come accennavo, una capacità di visione.
    Ho finito. La nostra è una lotta iniziata con la Resistenza, segnata dalla Liberazione,
    ma poi continuata in modo sotterraneo o manifesto in mille forme. Nei giorni scorsi lo
    storico Claudio Dellavalle mi ha inviato una bellissima mail a proposito della
    scomparsa di Carla. Ha fra l’altro scritto: “Penso che Carla ci abbia offerto un
    linguaggio e un modo di porsi che dovremmo cercare di salvaguardare perché è come
    guardare con occhi nuovi un impegno che viene da lontano”. Mi ha ricordato una nota
    frase di Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre,
    ma nell’avere nuovi occhi”. Ecco, essere partigiani oggi. Il nostro impegno richiede
    questo cambio di passo che ho citato all’inizio: dobbiamo avviare una nuova fase della
    lotta democratica e antifascista.

    27 Novembre 2020 0 commento
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